Onorevoli Colleghi! - Nell'ultimo quindicennio la storiografia sulla seconda guerra mondiale in Italia, e in particolare sul periodo successivo all'8 settembre 1943, ha vissuto un periodo di profondi cambiamenti, assistendo, da un lato, a un uso pubblico della storia spregiudicato e incurante delle fonti e, dall'altro, in particolare dopo il 1989, a un crescente tentativo non solo di rilettura ma anche di una delegittimazione della Resistenza antifascista. Per contrasto, si è però anche aperta la strada a nuove ricerche e sono cambiati le categorie interpretative e i soggetti sociali al centro delle analisi degli studiosi: non più i soli partigiani e la Resistenza militare, ma i civili e il loro quotidiano, il ruolo delle donne e la Resistenza civile, la guerra totale. Quindi, nuovi oggetti di studio e nuove parole chiave.
      Il dibattito è esploso in concomitanza con il cinquantesimo anniversario della Liberazione e, negli anni successivi, si è assistito a un vero e proprio cambiamento delle categorie interpretative utilizzate dagli storici. A ben vedere, è cambiato anche il modo di ricostruire e di interpretare la storia militare della Resistenza, e ci si è soffermati con rinnovata

 

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attenzione su aspetti basilari della resistenza armata: il rapporto tra comunità locali e partigiani, le motivazioni e la provenienza dei combattenti, i contrasti tra le formazioni e gli organizzatori politici e i capi militari, il problema delle rappresaglie e delle stragi di civili operate da tedeschi e da fascisti.
      La nuova sensibilità storiografica, anche attraverso l'applicazione di una prospettiva di «gender», ha poi restituito alle popolazioni civili, e alle donne in primo luogo, inizialmente escluse da uno sguardo troppo concentrato sulla lotta armata, lo statuto pieno di soggetto storico, meritevole di voci e di rappresentazioni adeguate. La pluralità dei soggetti coinvolti nel fenomeno «guerra» ha così finito per oltrepassare i rigidi confini della storia politica e militare, tutta imperniata su eventi e fenomeni di grande portata, e l'ampliamento degli strumenti d'indagine dal piano strettamente storico a quello antropologico e psico-sociale è diventato indispensabile per comprendere appieno lo sconvolgimento delle strutture di base della vita, la fame, la miseria, lo sfollamento e il confronto continuo con la morte, sperimentati durante il conflitto a livello individuale e collettivo e accompagnati dalle potenti emozioni della paura, della disperazione, dell'odio e, infine, del sollievo di fronte alla liberazione.
      Superando i confini per lungo tempo obbligati dell'equazione fra Resistenza e lotta armata, le ricerche, in particolare quelle a carattere locale, stanno gettando una nuova luce su di una gamma, complessa e frastagliata, di piccole e grandi disobbedienze che hanno minato alla base l'occupazione tedesca e sottratto progressivamente consenso al progetto della Repubblica sociale italiana, rientrando a pieno titolo dentro la categoria di Resistenza civile, cioè un «processo spontaneo di lotta della società civile con mezzi non armati, sia attraverso la mobilitazione delle sue istituzioni, sia attraverso la mobilitazione delle sue popolazioni, oppure grazie all'azione di entrambi gli elementi». Il suo senso ed obiettivo è quello di «preservare l'identità collettiva delle società aggredite, cioè i loro valori fondamentali» e di scavare l'abisso «fra la dominazione militare, che era uno stato di fatto, e la sottomissione politica, che è una disposizione di spirito» (Jacques Sémelin).
      In Italia l'applicazione di questa categoria ha riguardato fenomeni assai diversificati, quali la resistenza degli internati militari italiani in Germania, le scelte dei disertori e dei renitenti sia alla leva che al lavoro coatto imposto dai tedeschi, nascosti e alimentati dalle famiglie italiane, e in primo luogo da quelle contadine, quella degli operai, impegnati nelle fabbriche in lotte serrate ispirate da rivendicazioni economiche e politiche, nonché di semplici cittadini che hanno rischiato la vita per assistere i prigionieri di guerra evasi e per proteggere gli ebrei perseguitati. La ricerca ha quindi recuperato lo «specifico» del ruolo - in una lotta per la sopravvivenza che portava necessariamente a disobbedire agli ordini draconiani dei tedeschi e dei loro alleati fascisti repubblicani - giocato dalle donne (ricerca del cibo, assistenza ai malati e ai feriti, proteste per il pane e contro le evacuazioni forzate), e anche degli uomini di Chiesa (difesa delle comunità dalla violenza e dalla spoliazione degli occupanti): abbiamo a che fare, insomma, con un ventaglio di comportamenti che Tzvetan Todorov ha descritto e personificato nella figura del «soccorritore», che sceglie la strada della non violenza dimostrando che essa non significa automaticamente la non resistenza o l'accettazione passiva del male e della violenza, come invece sembrano ritenere coloro che parlano di un'estesa «zona grigia» che caratterizzerebbe il vissuto degli italiani in quei tragici frangenti che videro coesistere una guerra di eserciti stranieri combattuta sul territorio nazionale, una guerra di liberazione dall'occupazione tedesca e una guerra civile fra fascisti e antifascisti.
      Naturalmente, lo studio del vissuto bellico delle popolazioni civili non può prescindere da una più ampia riflessione sull'esperienza della «guerra totale» e della «violenza di guerra». I dati quantitativi
 

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relativi alle vittime civili del secondo conflitto mondiale, le ricostruzioni degli innumerevoli «crimini di guerra» e «crimini contro l'umanità» compiuti in questi anni, i perturbamenti della memoria sia delle vittime che dei carnefici, attestano la centralità della categoria della violenza per addivenire ad una comprensione organica e complessiva del fenomeno bellico. Una categoria che è anche un fenomeno sociale drammatico e che appare come la tragica sommatoria di molteplici fattori: la dimensione politica (la violenza come strumento del conseguimento di obiettivi bellici), quella ideologico-culturale (la «guerra civile europea»), quella più propriamente bellica (la dimensione totale del conflitto che rende sempre più evanescente la distinzione fra la prima linea e il fronte interno, soprattutto nelle vicinanze delle linee di demarcazione fra gli opposti eserciti, come in Italia sono state la linea Gustav prima, la linea gotica dopo), quella tecnologica (l'evoluzione degli armamenti, e in particolare dell'arma aerea, e l'estensione progressiva del loro raggio di azione hanno condotto a un coinvolgimento sempre più massiccio dei civili nel ruolo di vittime predestinate).
      In Italia durante l'occupazione tedesca la popolazione civile diventa obiettivo esplicito della repressione: disprezzati come razza infida e geneticamente traditrice, da depredare e da usare come manodopera nei campi di lavoro, percepiti in toto come nemico potenziale (sempre più senza alcuna differenza rispetto a partigiani e collaboratori della Resistenza), i civili italiani diventano il bersaglio di una strategia punitiva e di una violenza quotidiana e capillare che, radicalizzate dall'invisibilità della guerriglia, si accaniscono su di loro con i modi della rappresaglia esemplare o della politica del terrore. E il massacro di civili non è allora, quasi mai, un'azione irrazionale e senza senso, un rituale che si ripete ogni volta sempre uguale a se stesso, ma diviene uno strumento di potere funzionale alla condotta del conflitto e alla lotta contro i partigiani, ma anche al controllo totalitario sull'intera popolazione. La felice espressione di «guerra ai civili», elaborata dalla storiografia nell'ultimo decennio, possiede una capacità descrittiva piena e immediata. La politica della strage, infatti, lontana da una dimensione puramente irrazionale, obbedisce ad una deliberata strategia tesa, di volta in volta, a punire trasversalmente la resistenza con lo strumento della rappresaglia, a comprimere le zone di dissenso condannandole alla terra bruciata, ad assicurarsi un pieno controllo del territorio, soprattutto nelle retrovie del fronte, e possiede, dunque, una propria razionalità strumentale, che solo le accurate ricostruzione e contestualizzazione dei singoli episodi possono aiutare a comporre.
      L'occupazione tedesca ha, inoltre, manifestato tutta la sua violenza anche nei rastrellamenti di civili per la formazione di mano d'opera da inviare a lavorare in Germania in condizioni di schiavitù: un fenomeno, distinto da quello della deportazione di oppositori politici, che ha rappresentato una vera e propria esperienza di massa vissuta dagli uomini italiani, e quindi dalle loro famiglie, nelle zone soggette al dominio tedesco, ma che è stato pressoché dimenticato dalla memoria collettiva e dalle commemorazioni pubbliche nel nostro Paese, rimanendo confinato in una dimensione di ricordo individuale, o tutt'al più familiare, non in grado di restituire tutta la drammaticità dell'esperienza di chi fu soggetto a quel tipo di violenza.
      Ma la violenza sperimentata dalle popolazioni civili non è stata solo quella dell'esercito tedesco: individuata e ricostruita la specificità ideologica della violenza nazista, che la rende un unicum da studiare con categorie e con strumenti appropriati, l'approccio globale alla guerra e al suo vissuto bellico richiede di allargare lo sguardo anche ai bombardamenti degli alleati. La guerra totale è connaturata all'evoluzione tecnologica degli armamenti tipica del XX secolo. L'accresciuto potenziale di devastazione, la capacità di movimento e di mobilità degli eserciti, l'estensione sempre maggiore del raggio
 

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d'azione delle armi offensive hanno reso sempre più labile la distinzione tra fronte (la «prima linea») e fronte interno (la società che sostiene i combattenti), dilatando progressivamente i territori sottoposti alla pressione militare indiretta, in primo luogo proprio con l'offesa portata dal cielo. La seconda guerra mondiale ha visto il ricorso sempre più esteso al bombardamento aereo come mezzo per colpire il nemico nelle retrovie, danneggiando l'apparato produttivo e infrastrutturale necessario per sostenere lo sforzo bellico, e al contempo mirando a fiaccare lo spirito pubblico delle popolazioni, con l'obiettivo di sottrarre consenso politico-sociale ai governi avversari. E ancora oggi l'evento-bombardamento - da quello tedesco sulle città inglesi nel 1940 a quello giapponese di sorpresa su Pearl Harbor nel 1941, sino a quello alleato che, con modalità sempre più intense, colpì le città italiane e tedesche a partire dal 1943, per sfociare infine nel 1945 nei massacri di Dresda, Tokyo, Hiroshima e Nagasaki - ha nella memoria collettiva una straordinaria valenza simbolica e si identifica con l'intera esperienza del conflitto consumatosi tra il 1939 e il 1945.
      Nella presente proposta di legge si afferma l'esigenza di istituire un museo «aperto» per la linea Gustav e per la linea gotica dal momento che la capacità di far rifluire la storia e la memoria del conflitto mondiale, da un lato, e delle Resistenze italiane, dall'altro, intese come cardine e fondamento della Repubblica italiana, dipende molto da quanto si riescano ad attivare dei canali di trasmissione di un patrimonio di conoscenze proprie del mondo della ricerca e degli ambienti più avvertiti al più ampio panorama della cittadinanza. In altre parole, è importante che i concetti richiamati possano rifluire e interagire debitamente con i processi di formazione dell'identità nazionale.
      Importante, quindi, è concentrarci non solo sul «come» e sul «perché» di questi fenomeni, ma anche sul «dove», ovvero sulla dimensione spaziale della memoria, che risulta spesso ancorata a luoghi e a movimenti. La guerra, la Resistenza, la violenza subita, implicano in maniera diretta partenze e arrivi, movimenti e fughe, trasferimenti e marce, rifugi e abitazioni, strade e sentieri. Gli stessi sentieri odierni del Club alpino italiano ricalcano nella loro genesi, più di quanto si pensi, non solo le tradizioni contadine (le vie della mezzadria e della transumanza) ma anche l'esperienza della guerra (vie della guerriglia). Ma le considerazioni potrebbero proseguire. Le fortificazioni costruite dai tedeschi ricalcano spesso l'andamento naturale del territorio, esaltando la barriera protettiva di monti e di fiumi, ed ancora è possibile scorgerne tracce evidenti nei resti di bunker, camminamenti e sbarramenti; boschi, spazi aperti e radure sono spesso il luogo delle rappresaglie e delle stragi, così come mulini, granai e, spesso, chiese sono la sede dei roghi e della violenza dell'occupazione. E, ancora, la rete delle abitazioni collinari e montane rappresenta spesso il «network» dell'assistenza fornita dalle popolazioni non solo ai partigiani ma anche a molte altre fattispecie di bisognosi (renitenti, ebrei, civili in fuga dalla deportazione al lavoro coatto). Infine, la conformazione dei luoghi si intreccia anche con il «dopo» della violenza, con le elaborazioni del lutto, con la ricostruzione, con le cerimonie e con le liturgie pubbliche del ricordo.
      Non si può, insomma, prescindere dallo «spazio» della violenza, ed esso può così diventare uno strumento importante per trasmettere la storia e la memoria di questi eventi. Arrivare nei «luoghi della memoria», o di «condensazione della memoria» (Mario Isnenghi), e percorrerli, può rappresentare uno stimolo ad una conoscenza più diretta che, come ci spiegano gli antropologi, combacia in genere con una conoscenza più profonda, duratura e metabolizzata.
      Ripercorrere il cammino delle fortificazioni, ma anche delle vie di transito e di attraversamento del fronte da parte delle popolazioni civili alla ricerca di cibo, leggere i nomi delle vittime su una lapide commemorativa, percorrere un sentiero dopo aver saputo che questo ha visto l'arrivo del «carnefice» o la fuga della
 

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«vittima», osservare i luoghi di insediamento dei resistenti, capire lo «spazio» del quotidiano durante la guerra, tutto questo può contribuire a rendere più concreta la memoria della seconda guerra mondiale e delle resistenze italiane, e consentire un avvicinamento di prospettiva tra l'oggi della società italiana e dei suoi diversi soggetti e uno «ieri» troppo spesso considerato lontano, definito e concluso. Può contribuire, inoltre, ad aprire uno spiraglio su eventi lontani, che troppo spesso si è portati a pensare come senza senso, assurdi e irripetibili.
      Esiste una fiorente produzione a carattere locale che permette di ricostruire le dinamiche interne al movimento partigiano, la dislocazione delle formazioni, i luoghi teatro dei principali scontri militari, in alcuni casi vere e proprie «battaglie», in particolare lungo i contrafforti che fungevano da cardine della linea gotica. Diverse sono poi le località colpite dalle stragi naziste, che nelle vicinanza delle linee Gustav e gotica si sono addensate. Più a maglie larghe, invece, è il quadro relativo alle diverse forme di resistenza civile - sia delle donne che del clero - e alle altre manifestazioni violente della guerra totale (sfollamenti coatti, deportazione di manodopera, bombardamenti), aspetti sui quali è necessario che la ricerca compia altri passi in avanti.
      Come si vede da queste prime, poche e sommarie informazioni, esiste una dimensione fisica e spaziale della violenza di guerra e delle resistenze che può essere adeguatamente valorizzata. È realistico ipotizzare la costruzione di una serie di percorsi che, per il tramite di una cartellonistica adeguata, e di postazioni multimediali collocate nei luoghi più significativi e di snodo, configurino l'esistenza di un «museo a cielo aperto» che interessi l'intero territorio nazionale, attraverso la costruzione di una «rete» unitaria di queste esperienze. Esiste inoltre la possibilità di intersecare queste «vie ai luoghi della memoria» con altre, analoghe e similari. Si può pensare, ad esempio, ai percorsi della fede e della religiosità popolare o a quelli delle tradizioni gastronomiche ed enologiche. Si può pensare, ancora, a percorsi attraverso luoghi delle attività tradizionali del territorio (agricoltura, pastorizia, attività legate al bosco, sulla base magari di un censimento delle carbonaie, degli essiccatoi, dei mulini, delle case contadine e delle sedi di pascolo e di alpeggio) ma anche attraverso luoghi di estrazione e di lavorazione del marmo e della roccia (miniere). Sarebbe, questo, il percorso più spiccatamente turistico-ecologico (terre, sapori, luoghi di degustazione, prodotti tipici), ma non per questo meno legato alla storia del conflitto, visto che una delle caratteristiche della Resistenza è stata l'intreccio tra dimensione della guerriglia e dimensione comunitaria e contadina.
      Lo studio di questa dimensione, la violenza sui civili, inoltre, apre nuove importanti prospettive di analisi di quel periodo e di recupero di una memoria collettiva dell'esperienza di guerra degli italiani, quali l'idea di dare vita a un centro di documentazione per le stragi e per la deportazione dei civili, stimolata anche dalle riflessioni della relazione di minoranza presentata a conclusione dei lavori della Commissione parlamentare di inchiesta sulle cause dell'occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti della XIV legislatura.
      Solo parzialmente la domanda di giustizia che proviene dalle comunità colpite dalle stragi nazifasciste può essere soddisfatta con la celebrazione di processi a sessanta anni di distanza. Si tratta allora di procedere su un'altra via, che consenta di riportare all'interno della storia e della memoria della Repubblica le migliaia di donne e di uomini, di tutte le età, che sono stati sterminati dalla violenza esplicata su di loro, nella seconda guerra mondiale, durante l'occupazione tedesca, e di inserire in questa esperienza anche quella della deportazione dei civili obbligati al lavoro schiavistico in Germania.
      Ancora non abbiamo un atlante completo delle stragi nazifasciste in Italia (studi sono stati completati solo a livello regionale), non conosciamo l'esatto numero
 

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delle vittime, la loro identità, tanto meno quella degli autori delle stragi. Le commemorazioni delle varie stragi molto spesso non escono dall'ambito locale, acuendo il senso di isolamento - e di ingiustizia subita - da parte dei sopravvissuti, dei parenti delle vittime, dell'intera comunità colpita. Ancora più arretrata è la ricerca sul lavoro schiavistico nell'ambito del secondo conflitto mondiale.
      La citata Commissione parlamentare di inchiesta ha acquisito un'ingente mole documentaria nel corso dei suoi lavori: tutte queste carte dovrebbero essere desecretate (quando, e fino a che, non ostino indagini giudiziarie ancora in corso) e quindi essere depositate, in copia, presso un unico «archivio della memoria», gestito da un ente deputato a trasmettere la memoria delle stragi e della deportazione, come elemento di promozione dei diritti umani, e al quale sarebbe auspicabile fosse affidato il compito di ricostruire un «Atlante dei crimini nazifascisti», in modo da costituire una sorta di «Pantheon» dei caduti e delle vittime, con indagini accurate anche sul loro numero e sulla loro identità.
      Lo studio e la memoria della «guerra ai civili» - espressione ormai entrata nell'uso corrente da parte della storiografia per indicare come, nei conflitti totali del novecento, i civili abbiano rappresentato, al pari e a volte più dei soldati, un obbiettivo militare - rappresenta infatti il fondamento di una cultura della pace e dei diritti umani.
      Si propone pertanto l'istituzione di una Fondazione per la memoria dei crimini nazifascisti, sotto l'alto patronato del Presidente della Repubblica, con un comitato direttivo nel quale dovrebbero essere presenti rappresentanti delle istituzioni, delle associazioni dei familiari delle vittime, degli ex internati e deportati, delle comunità ebraiche, dei partigiani, e con un comitato scientifico responsabile dello svolgimento delle attività, che dovrebbe essere composto da qualificati studiosi italiani nominati dal mondo dell'università e della ricerca scientifica.
      Le finalità istituzionale della Fondazione dovrebbero essere:

          a) costituire un archivio centralizzato della documentazione sui crimini nazifascisti, il cui nucleo iniziale sarebbe costituito dalla documentazione raccolta dalla citata Commissione parlamentare di inchiesta, alla quale si dovrebbe unire - in originale o in copia - la documentazione man mano resa disponibile qualora venisse approvato un progetto di legge di desecretazione di tutti gli atti relativi ai crimini nazifascisti, sull'esempio del «Nazi War Crimes Disclosure Act» statunitense. È il caso di sottolineare come presso i National Archives statunitensi operi «The Nazi War Crimes and Japanese Imperial Government Records Interagency Working Group» (IWG), creato l'11 gennaio 1999 per sovrintendere alle incombenze relative al «Nazi War Crimes Disclosure Act», promulgato dal Presidente Clinton l'8 ottobre 1998. L'IWG è ben presto diventato la principale struttura di riferimento per le carte relative ai crimini e ai criminali nazisti;

          b) costituire un archivio della memoria, con il deposito di interviste a testimoni o a protagonisti di quelle vicende, di fotografie, di filmati, di documentari eccetera e promuovere nuove campagne di interviste a salvaguardia della memoria;

          c) avere rapporti organici con le scuole di ogni ordine e grado, per promuovere la conoscenza di quegli eventi nel rispetto della verità storica e della pluralità delle interpretazioni che legittimamente si confrontano fra di loro.

      In conclusione, la Fondazione dovrebbe avere il compito di preservare e di implementare la documentazione, secondo canoni di correttezza e di serietà scientifiche, di commemorare gli eventi, nel rispetto della verità e della pluralità delle memorie, nonché di promuovere una politica dei diritti umani fondata sulla corretta conoscenza del passato recente della nostra nazione.

 

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